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COMMONERS VOICES

Beni comuni, Usi collettivi e Comune: oltre la logica proprietaria

Un testo importante di Nicola Capone che fornisce "risorse teorpratiche", come lui le definisce, alla ricerca di un tipo diverso di rapporti giuridici che corrisponda a relazioni "basate sulla cooperazione, la socialità, sulla costruzione di identità non competitive", cioè anche "a nuovi modi di produzione". Nello schema attuale "se non c’è l’assegnazione, l’affitto, cioè se non c’è estrazione di rendita e mediazione proprietaria non è possibile nulla". Tuttavia, una nuova forma della teoria filosofica e giuridica è possibile, recuperando il dispositivo "disordinante, disarticolante degli usi civici e collettivi". Capone parte dall'esempio dell'Ex-Asilo Filangeri di Napoli. Il testo è compreso all'interno del libro La rivolta della cooperazione. Sperimentazioni sociali e autonomia possibile, a cura di Andrea Fumagalli, Gianni Giovannelli, Cristina Morini (Mimesis Edizioni, Milano 2018) che raccoglie parte degli interventi tenuti durante il convegno "Cooperazione sociale, autodeterminazione, Commonfare", organizzato l'autunno scorso dalla rete Effimera in collaborazione con il progetto Commonfare/Pie News


di Nicola Capone

I. Vorrei provare a guardare il tema della cooperazione sociale, dell’autodeterminazione e del commonfare dal punto di vista dei beni comuni. Visto che utilizzerò il diritto come chiave di lettura, vorrei iniziare con una considerazione preliminare: dobbiamo provare a pensare il diritto come uno strumento esattamente come è stato fatto più volte per l’economia in questi due intensi giorni di studio. Questo, a mio parere, ci permette di evitare l’errore di ritenere – specie quando consideriamo i problemi che stiamo analizzando – che le possibilità a cui dà accesso uno strumento siano valide per tutti i casi allo stesso modo. Nell’esperienza concreta sappiamo che non è possibile. Nel nostro caso quello che dobbiamo tenere fermo è l’obiettivo: liberare soggetti e beni dalla gabbia della logica proprietaria esclusiva.

Detto ciò, proverò schematicamente a raccontarvi in che modo a Napoli una serie di categorie quali Beni comuni, Usi collettivi e Comune si sono implicate reciprocamente. Se il Comune come modo di produzione (C. Vercellone et alii 2017; M. Hardt e A. Negri 2010) ci racconta un altro modo di stare insieme, un altro modo di produrre relazioni sociali – per cui, come è stato già detto nei precedenti interventi, non è una questione di quantità ma di qualità delle relazioni – è anche vero che una diversa forma di relazione basata sulla cooperazione e la convivialità produce molto spesso un tipo nuovo di bene: i Beni comuni, per l’appunto. Questi a loro volta implicano, però, una diversa forma di relazione tra beni e soggetti (S. Rodotà 2018). Ma è proprio qui che, dal punto di vista del diritto, sta il passaggio più insidioso: perché nei nostri ordinamenti l’unica forma di relazione possibile tra soggetti e beni pare essere lo schema proprietario esclusivo. Che fare, allora?


II. La nozione di proprietà – che di per sé definisce l’insieme dei diritti che si possono esercitare da parte di un soggetto su una cosa – viene declinata nei nostri ordinamenti sostanzialmente in due modi: proprietà pubblica e proprietà privata. La differenza tra le due forme proprietarie pare riferirsi solo alla diversità del soggetto proprietario: da una parte lo Stato-persona e dall’altra l’individuo astratto, sciolto da qualsiasi vincolo e legame sociale.

Ora noi sappiamo che nella proprietà si distinguono due termini, l’oggetto su cui si esercita il potere di proprietà e il soggetto che esercita questo potere. Dell’oggetto a sua volta si distinguono tre elementi, ovvero, la sostanza – vale a dire i bisogni che la cosa può soddisfare e le utilità che essa può dare per il presente e per il futuro –, l’uso che di essa si può fare e il godimento dei frutti che derivano dall’uso della cosa stessa. Secondo lo schema privatistico il titolo di proprietà dà facoltà di poter disporre liberamente e in modo assoluto dell’oggetto in tutti i suoi elementi escludendone terzi. Sappiamo anche che la quasi totalità degli oggetti e dei beni con i quali noi entriamo in relazione nell’attuale sistema di produzione capitalistico sono o prodotti di processi di produzione o elementi della produzione stessa, ragion per cui la proprietà oltre alle cose già dette fissa pure determinati rapporti di produzione, che a loro volta sono il risultato di determinati modi di produzione. Rapporti di produzione e modi di produzione trovano, insomma, nella nozione di proprietà una sintesi, un sigillo. Per questo motivo noi non possiamo eludere il tema della proprietà, che è la forma in cui gli ordinamenti catturano i beni prodotti e fissano le forme di relazione tra soggetto e oggetto.


III. Partendo da queste considerazioni a Napoli abbiamo cercato di capire come gli oggetti e i beni di proprietà – in seguito dirò perché uso oggetto e bene in modo diverso – potessero essere liberati dallo schema proprietario basato sull’esclusione degli altri. I nostri ordinamenti pare ci dicano che questa operazione non sia possibile. Dinanzi a questa apparente impossibilità o è quella di creare qualcosa di oppositivo, ovvero, la non-proprietà, vale a dire l’occupazione che è la negazione della proprietà in assoluto, o quella di affidarsi alla negoziazione proprietaria per cui ad esempio nel caso di una proprietà pubblica si sceglie la via più semplice dell’assegnazione dello spazio. Il problema è che queste risposte, molto spesso necessarie per rompere un rapporto di subalternità o per consentire ad un’iniziativa di continuare, dal punto di giuridico sono poco trasformative e innovative. Risolvono un problema nell’immediato ma, in prospettiva, lasciano il campo dei rapporti giuridici immutato. Il risultato è che il tema della proprietà viene abbandonato e tutta l’attenzione si concentra sul piano dell’autorganizzazione, dell’autogestione, dell’autogoverno dei soggetti che esercitano una qualsivoglia forma di contropotere. Temi essenziali per il nostro ragionamento, che non possiamo sfuggire, ma che se ci fanno perdere di vista il tema del terribile diritto rischiano di lasciare inalterato un mondo che noi tutti auspichiamo di poter trasformare.

Forme di relazioni basate sulla cooperazione, la socialità, sulla costruzione di identità non competitive hanno bisogno di un tipo diverso di rapporti giuridici e la proprietà individuale non consente quei rapporti, perché in quello schema se non c’è l’assegnazione, l’affitto, cioè se non c’è estrazione di rendita e mediazione proprietaria non è possibile nulla. A nuovi modi di produzione, a nuovi modi di relazione è necessario che corrispondano nuovi rapporti di produzione, nuovi rapporti di proprietà. Ecco perché gli usi collettivi diventano una risorsa teorpratica (N. Capone 2016:636) fondamentale perché attraverso di essi è possibile mettere in discussione dall’interno la nozione stessa di proprietà, e provare a immaginare e costruire un tipo nuovo di proprietà.

Per questo a Napoli abbiamo scelto di fare un lavoro diverso dall’occupazione o dall’assegnazione. Dopo un periodo di occupazione abbiamo cominciato nella pratica dell’uso quotidiano dello spazio e nella teoria filosofica e giuridica a scardinare la logica proprietaria che teneva in ostaggio l’immobile oggi conosciuto come l’ex Asilo Filangieri. Secondo questa linea di pensiero essendo il palazzo di proprietà del Comune, non si dava altra possibilità di gestione se non una concessione da parte del Comune ad un’associazione che avrebbe così garantito una certa rendita per la finanza pubblica. Noi in questo caso avremmo garantito democraticità nella gestione, offerto spettacoli e produzioni artistico-culturali ad un prezzo sociale, eccetera eccetera, ma nella sostanza insieme al Comune avremmo estratto valore di scambio da un bene pubblico, saremmo stati nella relazione in cui si trovano un proprietario di un locale e il suo affittuario. Avremmo fatto cose meravigliose in termini soggettivi ma oggettivamente i rapporti di proprietà sarebbero rimasti inalterati. Così come identici sarebbero rimasti i rapporti di potere con tutti i suoi corollari.


IV. Noi, dicevo, abbiamo deciso di sondare un altro sentiero. Abbiamo ritenuto possibile interpretare la proprietà pubblica – ma vale la stessa cosa per la propria proprietà privata – in un altro modo. E vengo allo strumento che abbiamo utilizzato. Il dispositivo di presa, il dispositivo disordinate, disarticolante che noi abbiamo utilizzato è stato quello degli usi civici e collettivi.

Si tratta di una delle più antiche istituzioni del mondo rurale addirittura precedente al diritto romano; un dispositivo potente che ha resistito nel tempo nonostante il prevalere, in molti casi violento, della proprietà esclusiva dei beni. Gli usi collettivi sono la traccia di una memoria antica che ci proietta in un futuro possibile e auspicabile. Il fatto che i beni fossero usati in modo collettivo e che i diritti d’uso civico permettessero di soddisfare determinati bisogni e diritti ci permette oggi di disarticolare la relazione molto spesso morbosa tra il titolare del bene e il bene oggetto d’uso.

Grazie ad esso è possibile ancora oggi governare collettivamente risorse comuni fondamentali per una comunità, la qual cosa comporta alcune importanti novità. Qui mi limito a segnalarne due. Innanzitutto, alcuni beni – e questo è proprio del diritto di uso civico e collettivo – possono essere utilizzati da un soggetto plurale, come una comunità di abitanti o di lavoratori e lavoratrici, che non ha bisogno di entificarsi dandosi personalità giuridica attraverso, ad esempio, la costituzione di un’associazione.

In secondo luogo, l’azione e la cura collettiva fa emergere la qualità dell’essere-in-comune di determinati beni; essi vengono in tal modo determinati come beni comuni. E qui vorrei fare un inciso, ovvero, che i beni comuni non sono predeterminati ma sono creati dall’azione collettiva. Qui sta la forza della definizione dei beni comuni data dalla commissione Rodotà che non a caso mette in stretta relazione l’azione collettiva, i beni comuni e e il soddisfacimento di diritti e bisogni. In altre parole i beni comuni sono quei beni che vengono individuati come necessari per realizzare di diritti e bisogni fondamentali (S. Rodotà 2015, 2016).


V. Questa forma d’uso si presenta come una modalità diversa di relazionarsi ai beni, un diverso modo di regolarne l’accesso che non permette l’uso e la gestione esclusiva di una risorsa da parte di alcuno. Tracce di questo diverso modo di possedere si trovano nelle Preleggi del Codice civile, che riconoscono gli usi come una delle tre fonti del diritto, e nel diritto pubblico e amministrativo che presenta i diritti collettivi di uso e godimento di taluni beni come una delle tre fattispecie che, insieme al demanio e al patrimonio, formano la nozione di proprietà pubblica (N. Capone 2016).

L’attualità di questa istituzione la evidenziava Paolo Cacciari quando nel suo intervento ci ricordava che lo scorso 26 ottobre al Senato è stata approvata una legge che finalmente riordina i domini collettivi (L. 168/2017), sancendo definitivamente che il diritto d’uso collettivo – vale a dire un altro modo di possedere, un altro modo di relazionarsi ai beni – è incardinato nell’ordinamento costituzionale e che a partire da questo si da oggi la possibilità di aprire il congegno proprietario (M. Fioravanti 2009; L. Ferrajoli 2013).


VI. Ecco, se dovessi usare una metafora direi che il diritto d’uso civico riportato in aree urbana, in relazione ai beni, è una chiave che apre un congegno, perché ci ricorda che la proprietà non era e non si dava solo nella forma dell’uso esclusivo e assoluto della cosa, ma che essa ha sempre tenuto in sé fin dall’origine una pluralità di rapporti. Gli usi civici e collettivi ci ricordano che il soggetto non è mai solo con la cosa e che quest’ultima non è mai solo cosa ma un bene che è in sé un pluriverso, un sistema complesso di bisogni, utilità, relazioni. Su questo punto le relazioni di Cristina Morini, Andrea Fumagalli e Andrea Ghelfi, hanno già detto abbastanza. Qui insisto solo sul fatto che fuori dalla logica proprietaria scompaiono l’astratto soggetto di diritto e la nuda cosa e entrano in scena la persona con il suo vissuto, i suoi diritti, le sue rivendicazioni e i beni che non sono come gli oggetti  gettati dinanzi a noi, res nullius, ma si presentano piuttosto gravidi di tutta la loro complessità, un’unità dinamica in cui sono vive tutte le varietà d’uso, i frutti possibili, le relazioni umane, eccetera, eccetera. Un bene è tutto questo insieme. Schiacciato nella logica proprietaria esso è ridotto ad oggetto di consumo da cui estrarre valore economico (F. Capra, U. Mattei 2017).

Aprire il congegno proprietario significa liberare soggetti e beni e reimmaginare nuove forme di relazione, di produzione, nuovi modi di stare-in-opera.


VII. Chi era il soggetto plurale nell’esperienza de l’Asilo? La comunità dei lavoratori e delle lavoratrici dell’arte, dello spettacolo e della cultura, cioè soggetti precarizzati i quali decidono di agire collettivamente per condividere competenze e mezzi di produzione. Qual era il bene? Un immobile proprietà del Comune affidato come sede e fondo di garanzia alla Fondazione Forum Universale delle culture per l’organizzazione di grandi eventi. L’azione collettiva di quelle lavoratrici e quei lavoratori ha trasformato quel bene in un bene comune, ossia in un bene utile al soddisfacimento di quesi bisogni e diritti violati continuamente dalla logica spietata del mercato e del profitto. Qual è stato lo strumento utilizzato? Il diritto d’uso civico e collettivo ancora vivo nel nostro ordinamento e che ha permesso all’amministrazione – che aveva già riconosciuto i beni comuni inserendoli nello statuto del Comune – di aprire una nuova stagione del diritto amministrativo.

Per concludere schematicamente dirò che il movimento a cui abbiamo assistito segue questo schema: un nuovo modo di produzione, il Comune, trasforma un bene gestito in modo esclusivo in un bene comune accessibile a tutti e fissa questo nuovo rapporto nel diritto amministrativo come diritto d’uso collettivo. Detto in altri termini, attraverso l’uso di un bene per il soddisfacimento di bisogni e diritti fondamentali, animato dalla forza generativa del Comune emergono i beni comuni.

Questo stesso schema può essere applicato anche alla proprietà privata; pure in questo caso infatti è possibile un’altra interpretazione volta ad aprire il congegno proprietario: dall’azionariato popolare, ai Community land trust (fondazioni per una gestione immobiliare comunitaria), alle proprietà collettive sono tutti strumenti che conferiscono alle comunità i diritti di proprietà comune su beni e aree anche molto estese.


VIII. Tutto ciò ha tantissime implicazioni, sia sul piano giuridico, sia sul quello politico. Sul piano strettamente giuridico noi sappiamo, ad esempio, che gli usi implicano quasi sempre la gestione e l’amministrazione di molti aspetti che riguardano un bene e su questo terreno si sono fatte vare ipotesi – alcune delle quali hanno trovato anche applicazioni amministrative – quali ad esempio l’Amministrazione Separata dei Beni ad Uso Civico (ASBUC), l’amministrazione partecipata, quella condivisa e quella diretta (G. Arena 2017; G. Micciarelli 2017).

Ma la cosa che qui mi preme mettere in evidenza è che tutto questo implica un diverso modo di relazionarsi. Non ne possiamo fare una questione di quantità – quanti spazi liberati ci sono in Italia, quanto grandi sono, quante persone coinvolgono. Quello che è in gioco è un diverso modo di relazionarsi, un’ecologia delle relazioni (G. Pizziolo, R. Micarelli 2003). Se non scardiniamo il modo competitivo che oggi caratterizza il nostro stare insieme, il modo estrattivo di relazionarci alle cose, facciamo poco, cioè creiamo una struttura che non muta di segno le dinamiche di potere che noi diciamo di combattere. Un movimento che intenda esercitare un contropotere non può non porsi il tema della natura del potere e della messa in discussione delle forme in cui esso si presenta. Noi abbiamo bisogno di potere, ma di un potere liberatorio, che tuteli le differenze, che rafforzi il dialogo, che non sfugga il conflitto. Abbiamo bisogno di un potere che ci dia la capacità estrarre dalle nostre relazioni e dai beni che mettiamo in comune il valore d’uso, il valore della cura reciproca. Per cui un bene comune è tale se è condiviso, se è accessibile a tutti e a tutte, se diventa strumento di relazione e di convivialità. Questo è la premessa per pensare anche alle economie, perché altrimenti rischiamo di riprodurre sistemi che estraggono esclusivamente valore di scambio, che è ciò che rende fragile ed estremamente pericoloso il sistema di relazioni di proprietà nel quale ci troviamo.


Breve Bibliografia di riferimento:


Arena Gregorio, Amministrazione e società. Il nuovo cittadino, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 1, 2017;


Capone Nicola, Del diritto d’uso civico e collettivo dei beni destinati al godimento dei diritti fondamentali, in «Politica del diritto», Fascicolo 4, dicembre, il Mulino 2016;

Capra Frijof e Mattei Ugo, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca edizioni, Sansepolcro (AR) 2017;


Ferrajoli Luigi, La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Laterza, Roma-Bari 2013;

Fioravanti Maurizio, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Laterza, Roma-Bari 2009;


Hardt Michael e Negri Antonio, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.


Micciarelli Giuseppe, Introduzione all’uso civico e collettivo urbano. La gestione diretta dei beni comuni urbani  a  Napoli, in «Munus», n. 1/2017;


Pizziolo Giorgio e Micarelli Rita, L’arte delle relazioni, Alinea, Firenze 2003;


Rodotà Stefano, I beni comuni. L’inaspettata riscoperta degli usi collettivi, a cura di Geminello Preterossi e Nicola Capone, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2018;

Rodotà Stefano, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e sui beni comuni, il Mulino, Bologna 2016;

Rodotà Stefano, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2015;


Vercellone Carlo, Brancaccio Francesco, Giuliani Alfonso, Vattimo Pieluigi, Il comune come modo di produzione. Per una critica dell’economia politica dei beni comuni, ombre corte, Verona 2017.






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2 Comments

Anonymous avatar

Anonymous

September 27, 2018 at 11:10

Very interesting

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cxejqiov310

September 28, 2018 at 14:53

Superlativo