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STORIE

Paesaggio e Beni Culturali. Verso il FORUM SICILIANO-Sussidiarietà orizzontale e cittadinanza attiva


QUALE RUOLO DELLA P. A. REGIONALE BB.CC. ? 
COME DIFENDERE IL PATRIMONIO COMUNE DAL SACCHEGGIO PRIVATISTICO ?
L’ASSISE ISOLANA CHIAMA AL CONFRONTO L’ASSOCIAZIONISMO CULTURALE DEMOCRATICO E SOLIDALE E GLI AMMINISTRATORI DEGLI ENTI PUBBLICI TERRITORIALI, NONCHÉ LE ISTITUZIONI CULTURALI E GLI INTELLETTUALI, GLI STUDENTI E I GIOVANI DEI QUARTIERI DELLE CITTÀ, LE DONNE E GLI UOMINI CHE OPERANO NEL SETTORE E TUTTI COLORO CHE NON VOGLIONO FARSI OMOLOGARE DAL PENSIERO UNICO DOMINANTE, AL FINE DI PARTECIPARE ALLA FONDAZIONE DEL FORUM SICILIANO PER LA TUTELA PARTECIPATA DAL BASSO DEL PAESAGGIO E DEI BENI CULTURALI

Anche all'interno dello storico sindacato CGIL si aprono squarci di riflessione sui beni comuni.  Per la verità, bisogna dirlo,  nonostante la coesistenza di anime diverse spesso in palese contrapposizione (senza andar lontano basta volgere lo sguardo all'attuale dibattito congressuale focalizzato sulla segreteria), già nella battaglia referendaria contro la privatizzazione dell'acqua la confederazione si era impegnata non poco all'interno del vasto fronte d'opposizione, contribuendo con successo all'affermazione della campagna "Acqua-Bene comune".
Oggi scende in campo la Funzione Pubblica della CGIL-Sicilia, la quale si è fatta promotrice  del Convegno sul Paesaggio e patrimonio culturale  in quel di Taormina il prossimo 27/11. L'iniziativa chiama in causa gli amministratori locali e i soggetti sociali, culturali e sindacali, strutturati anche informalmente (comitati, collettivi, ecc.): non sarà la
costituente del comune e tuttavia rappresenta un abbrivio con potenzialità tutte ancora da verificare. Di seguito si propone il documento con spunti politici molto interessanti  in sintonia, crediamo,  con lo spirito di questa piattaforma

Per la FP CGIL Sicilia quello dei BB.CC, ancorché indiretto, è un settore strategico per lo sviluppo dell’isola. Infatti la valorizzazione dei beni culturali siciliani può rappresentare una formidabile leva attrattiva in grado di agire da effetto traino di un sistema integrato (culturale, paesaggistico urbano e naturalistico) per diversificare l’offerta dei servizi in modo da soddisfare una domanda larga e non elitaria, guardando ben oltre le macerie consegnateci dalla inarrestabile desertificazione industriale. 
Nello specifico della gestione dell’ampio bacino del patrimonio storico-artistico regionale, in tutti i tavoli di contrattazione -sia dipartimentale sia locale- ha da sempre rappresentato le difficoltà che investono il settore dei BB.CC., lamentando l’assenza di un “piano programmatico strategico” dell’offerta culturale, capace di coordinare gli interventi nei territori, onde evitare le inutili ed indesiderate concorrenzialità registratesi fra i presidi culturali, alla luce anche del galoppante processo gestionale privatizzato, nel quale si fanno valere più gli interessi lucrativi che le finalità di tutela all'indirizzo della salvaguardia del bene comune. Tutto ciò grazie alle scellerate strategie economiche perseguite dal ceto politico post “prima repubblica”, sia di destra -o nuova destra gialloverde- sia di "sinistra" (do you remember "lenzuolate bersaniane"?) 
Da decenni questa “classe politica” fa a gara per rivendicare la paternità dell'efficientismo mercatista, mostrandosi supinamente organica alle imposizioni dalla euro-governamentalità burocratica che basa il suo paradigma sulla "efficienza del mercato" e sul dogma del "privato è bello". Questo liberismo imperante (che in ultimo – detto non tanto per inciso – preferisce la deriva reazionaria-populista all’inversione di tendenza necessaria per uno spazio comune della democrazia europea) di recente ci ha mostrato il suo vero volto, ovvero: essere “portatore sano” di maledizioni e morte (leggi: ponte-morandi). 
In nome della deregulation economica e della pseudo “efficienza privatistica”, il ceto politico emerso dalla “II-Repubblica” (data la sua incapacità a riformare in senso democratico e partecipativo le istituzioni e la pubblica amministrazione; e dato anche il suo asservimento ai diktat del comando neoliberista, rinunciando così alla regolazione del sistema finanziario) ha consegnato alla speculazione mercatista le grandi reti infrastrutturali (ferrovie, autostrade, comunicazioni e via elencando). 
Ma il saccheggio dei beni comuni non si è ancora arrestato: dopo l’acqua – nonostante il referendum -anche il patrimonio culturale e paesaggistico non viene risparmiato in ossequio alla legge del profitto, nella convinzione che solo attraverso la valorizzazione economica è possibile trovare le risorse necessarie per la conservazione, vincolando le entrate della fruizione a questo scopo. Ora sul tema dell’autofinanziamento è stato dimostrato che senza un sostegno diretto della fiscalità generale nemmeno i più grandi musei pubblici europei potrebbero fare fronte agli interventi conservativi e di restauro. 
In sostanza in nome di una malintesa “valorizzazione” e di un “modernismo effimero” si rischia di ridurre i siti della cultura a fabbriche dell’apparire. È il caso di rammentare agli amministratori pubblici che anche l’articolo 6 del Codice di settore “ha chiuso fermamente le porte a una interpretazione economicistica della valorizzazione”, così come ha avuto modo di rilevare Montanari nel suo ART.9-COSTITUZIONE ITALIANA (2018, cfr.p.58). Nella fattispecie la norma recita: “La valorizzazione consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio […] al fine di promuovere lo sviluppo della cultura”. Pertanto, vanno messe in discussioni quelle forzature gestionali poste in essere dalle pubbliche amministrazioni, e da quella regionale nello specifico, allorquando fanno della “valorizzazione” il principio-chiave della fruizione del patrimonio culturale. Desta non poche perplessità, anche in ordine alla legittimità amministrativa, la diffusione di pratiche “valoriali” che oltre a snaturare lo spazio-contenitore trasfigurano parimenti il luogo-contenuto, mettendo in forse il principio fondamentale della tutela, il quale beninteso è l’istituto attraverso cui vengono garantiti i diritti di ogni singolo individuo, la cui esigibilità (così come per esempio nella tutela della salute) non è condizionata da alcuna interposizione tra il cittadino e le istituzioni pubbliche. Ma anche la comunità determinatasi sotto i ponti del divenire vanta un suo diritto inalienabile che si riflette sulla gestione dei beni pubblici - quello della memoria. Si tratta di un Diritto che vivifica nell’universalità del patrimonio custodito nei siti culturali pubblici e privati, la cui essenza viene sovente mortificata quando la sua rappresentazione viene evenemenzialmente piegata all’effimero consumo del “mordi e fuggi” imposto dal mainstream della “società dello spettacolo”.
Insomma si vuole rivendicare, coerentemente al quadro costituzionale, il principio secondo cui la dimensione valoriale d’uso dei beni comuni culturali non è commensurabile alla stregua di una qualsiasi altro bene commerciale, tanto meno l’incommensurabilità del patrimonio culturale può essere messa in valorizzazione nell’interesse esclusivo di parte. D’altro canto la posizione sindacale espressa è assai nota per aver già criticato fortemente la gestione e il modello “aziendalista-manageriale” introdotto dal ministro Franceschini, il quale, pur di mettere “in valorizzazione” i beni delle cosiddette “siti- aziende”, pare abbia acconsentito al varo di un tariffario perfino per eventi cerimoniali nunziali (a Paestum –per esempio- il regolamento tariffario prevede “da 200 euro in su per le foto e da 2mila in su per il rito civile” [cfr. ansa]).
Questi amministratori “illuminati” pensano, nell’esercizio delle proprie competenza, che con l’apertura ai privati della gestione dei siti culturali (l’esternalizzazione dei servizi aggiuntivi, sponsorizzazioni, art bonus, etc.) e con la messa in valore del rapporto di scambio sito-azienda/pubblico-cliente, si possa assicurare un sistema di “efficacia ed efficienza” tale da garantire un circuito “virtuoso” della fruizione, senza far venire meno quell’osservanza del quadro normativo che prevede la tutela dei beni culturali come finalità sociale allo scopo di formare una nuova cittadinanza pienamente consapevole. Si tratta di un processo permanente di conoscenza su cui si innesta anche la cura e la prevenzione del patrimonio comune. Appare evidente che siffatte finalizzazioni non possono prescindere dalle azioni amministrative dell’operatore pubblico, al quale istituzionalmente compete istituire un rapporto diretto con la società civile (strutturata od organizzata anche informalmente) e non certamente un rapporto mediato dall’impresa commerciale. 
Avendo come punto di osservazione non solo quello nazionale ma anche quello regionale, possiamo ben dire che la sinergia del mix pubblico/privato ha determinato la marginalizzazione progressiva del pubblico, se non addirittura una vera e propria estromissione dello stesso: il “servizio aggiuntivo” in molti casi sembra essere diventato dominus del sito pubblico, mentre i beni contenuti sembrano posti a traino dell’attività dell’operatore privato. Insomma spesso si assiste al capovolgimento della ratio sinallagmatica. O forse, ancora peggio, è nel rapporto contrattuale posto in essere che la parte pubblica ha rinunciato all’esercizio delle sue prerogative, rinuncia del ruolo da cui discende una de-responsabilizzazione sulla gestione culturale affidata ad una burocrazia pletorica ed asservita al governante di turno – altro che separazione tra funzione politica e funzione amministrativa.
Bisogna affermare con nettezza: non si può pensare che prima tutto funzionasse meglio. Però, nello stesso tempo, si è verificato che il privato non è affatto la panacea blaterata da pensiero dominante. Si deve riconoscere che non necessariamente tutti i soggetti “altri” debbano essere riconducibili al “privato” - nel senso del sistema dell’impresa. Possono nascere nuove soggettività capaci di integrare e cooperare con il Pubblico. Favorire un nuovo mix che guarda alla socializzazione delle competenze tecniche e specialistiche diffuse fra le nuove generazioni che rischiano di essere tagliate fuori e depauperate nelle loro conoscenze dal dumping generato dal mercato di lavoro, sempre più povero e miserevole. Solo guardando a queste nuove soggettività possiamo immaginare un nuovo ciclo virtuoso che passi non solo per i grandi attrattori culturali, ma guardi anche al recupero e al valore d’uso dei cosiddetti “siti minori” a rischio di oblio, il cui alto valore storico-archeologico e artistico-culturale è indiscutibile, se visti anche nella loro complessità paesaggistica ed antropologica. 
Su queste direttrici la FP CGIL Sicilia pensa alla necessità di istituire un Forum Siciliano del Paesaggio e dei Beni Culturali e propone di costruire, assieme alle soggettività interessate, una piattaforma operativa per la tutela partecipata dal basso dell’immenso patrimonio comune e la difesa della nostra memoria oggi minacciata dalla dilagante reificazione espropriatrice, imposta dalla “legge di scambio” che tutto trasforma in accumulazione monetaria.

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5 Commenti

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novembre 05, 2018 at 20:08

parliamo volentieri di come commonfare può esservi utile!

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