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GLASOVI COMMONERA

STORIE OPERAIE TRA RIPRODUZIONE E PRODUTTIVITÀ

Allargare lo sguardo al di là del macchinico della produzione -Daniela Musumeci-



Per dirla con Cristina Morini (Bin -Italia): dovremmo “immaginare una società dopo il lavoro”, anziché continuare a disegnare“ un mondo di salariati a tempo pieno, strutturato sul suo carattere sessista”, fino a giungere all’accantonamento del concetto fondamentale elaborato dalla critica marxiana, quello della libertà dal lavoro. Questa è la chiave – in estrema sintesi – su cui ruota la recensione di Daniela Musumeci. Ovvero, fare emergere il nodo irrisolto che rimane sullo sfondo delle storie operaie di “Doppio Carico”, vissuti di grande generosità conflittuale che, però, soffrono la contraddizione dell’incantamento dentro una prospettiva ancorata nella ideologia lavorista, senza provare ad intravedere oltre l’orizzonte produttivistico. Allargare lo sguardo al di là del macchinico della produzione è la sollecitazione della Musumeci, ponendo un punto di domanda conclusivo che riapre la discussione sulla determinazione storica – nell’epoca della globalizzazione – della composizione tecnico-sociale su cui agisce la sussunzione estrattiva del capitale. In altri termini, se “il soggetto sfruttato che produce plusvalore sia nei fatti un soggetto asessuato, un mero flusso di informazioni, funzionale all’accumulazione qualunque sia il suo genere?” [nota NbBm]

Una narrazione doppia
Il libro di Loriana Lucciarini, edito da Villaggio Maori nel giugno 2019, allude nel titolo al duplice lavoro, domestico e retribuito ovvero di cura e “produttivo”, cui le donne sono sottoposte almeno dall’inizio della rivoluzione industriale, ed ha come sottotitolo Storie di operaie.
Si tratta di un’inchiesta sociale costituita da interviste a lavoratrici Fiom CGIL di tutta Italia. Non rappresenta dunque un campione esaustivo del mondo del lavoro femminile, ma riporta la testimonianza di quante sono impegnate nel sindacato.
Le parole chiave suggerite dalle curatrici per l’interpretazione delle interviste sono: contratto sessuale, sottostante al contratto sociale e celato, ma fondativo della divisione sessuale del lavoro tra produzione e riproduzione; forza delle relazioni; lavoro di cura, alternativo al lavoro dettato dalla macchina; centralità del corpo che non tace e addita nuove buone pratiche, i cui bisogni, se ascoltati, trasformerebbero per tutti il lavoro umanizzandolo; primato delle persone sul profitto; persistenza ingiusta del gender gap, nella disparità retributiva, nelle difficoltà per l’accesso alla formazione e alla progressione di carriera, nella frequenza dei licenziamenti e delle dimissioni in bianco; autorevolezza femminile, basata sulla fiducia reciproca e alternativa al potere basato sulla paura e sull’insicurezza; riconoscimento in un luogo, la fabbrica metalmeccanica o elettronica, fino a poco tempo fa monosessuato; solidarietà alternativa alla competizione, anche tramite il sindacato.
Sembrano affiorare due ordini di narrazione: le operaie alla catena di montaggio sono più critiche nei confronti del sistema, ne denunciano l’alienazione legata alla crescente robotizzazione e la precarietà legata alla delocalizzazione; mentre le impiegate nell’amministrazione o nell’informatica si mostrano ovviamente più appagate delle proprie mansioni.
Per entrambi i gruppi contano comunque soprattutto le pratiche di relazione: vengono le persone prima del profitto, ripetono più volte.
Le operaie raccontano di star diventando  esse stesse robot, cavie, api operaie; parlano di sé come di salmoni che, per un semplice starnuto, devono saltare e risalire la corrente, cioè raggiungere il pezzo da assemblare sul nastro trasportatore, i cui ritmi sono gestiti da un robot; riferiscono l’inumanità dei tripli turni e della brevità delle pause (dieci minuti ogni due ore) nelle fabbriche a ciclo continuo.
Le impiegate raccontano la confusione e l’assenza di privacy negli open spaces; il mobbing e l’ironia irridente dei compagni maschi, la quasi totale impossibilità di progressione di carriera e di stipendio.
Della globalizzazione tutte paventano: la precarizzazione dei contratti (anche a 15 giorni per i neoassunti!), la delocalizzazione e i licenziamenti, in una parola la crescente ricattabilità che scatena una guerra tra povere/i; poco sembrano avvertire, invece, il pericolo che la crescente robotizzazione riduca ulteriormente i posti di lavoro, espellendo sempre più forza lavoro viva.

Le storie una ad una
Sono otto racconti per dodici voci. Ne riportiamo qualcuna.
Livia, della FCA di Melfi, narra di quando, nel 2015, fu imposta “una tuta bianca che si sporca facilmente e che, soprattutto, non tiene conto delle mestruazioni, causando imbarazzo e problemi”. Una raccolta di firme non sortì alcun effetto, ma nel 2018 un’artista realizzò una mostra con le tute sporche delle operaie e ne parlarono tutti i giornali.
Lara, di Poggio Reggiolo, dichiara che la precarietà la fa sentire una funambula o un’equilibrista: licenziatasi  per mobbing, sul nuovo posto è stata dequalificata, ma ha comunque costruito creatività e gioia nella sua vita: ama  la lettura, i fiori, il découpage, i balli latinoamericani e il suo gatto.
Pamela, di Ferrara, è delegata sindacale alla VM motori, fabbrica coinvolta nello scandalo Dieselgate, poi  divenuta FCA e parzialmente smantellata. Riferisce il sarcasmo dei compagni maschi per il suo abbigliamento. “Ho dovuto spiegare che il rossetto era anche una protezione per le labbra, lo smalto mi aiutava a coprire lo sporco sotto le unghie e le mollettine nei capelli servivano a raccogliere le ciocche per proteggerle dagli ingranaggi. Insomma, non erano solo un vezzo”.
Gloria e Rina lavoravano a Roma alla Agile ex Eutelia, che ha chiuso a causa delle speculazioni e della corruzione della famiglia Landi (Samuele è latitante a Dubai per bancarotta fraudolenta, avvenuta in una fabbrica che era stata ideata da Adriano Olivetti!); inutile uno sciopero con le maschere bianche di Anonimus, poi divenute frequentissime: la nuova gestione ha provocato altri esuberi.  Rina è stata licenziata. “Sono stati giorni molto pesanti. Io sono single, ero monoreddito, con un mutuo da pagare. Mia madre, che ha ottantadue anni, mi ha dato una mano e lo sta facendo ancora oggi che sono senza alcuna entrata economica. Quella precarietà mi è rimasta cucita addosso; non puoi fare più progetti, la vita si ferma… ti invitano al cinema, in pizzeria, ma non puoi andare perché non hai i soldi. Sono venute meno anche le relazioni. Un carico davvero pesante, che mi è costato molto; tutta la rabbia, lo stress, il senso di ingiustizia… si sono trasformati dopo pochi mesi in un carcinoma al seno”. Eppure lei e i suoi compagni hanno saputo trasformare tutto questo in resilienza: hanno inventato una cassa di resistenza, una sorta di società di mutuo soccorso, e l’orto dei cassintegrati, inserito per cinque anni nell’esperienza più larga degli orti urbani.
Cinzia, impiegata alla Whirpool di Pesaro-Urbino,denuncia il declassamento delle donne affette da malattie professionali, primo fra tutti il tunnel carpale,e la persistente incomprensione maschile: “quando nel mio biglietto da visita ho fatto scrivere ‘segretaria’ e non ‘segretario’, in molti credevano fossi la segretaria del mio segretario generale! ” Racconta anche, però, degli scioperi a scacchiera contro gli esuberi alla Indesit: “abbiamo lottato divertendoci”.
E infine Rosy, della STM – microelettronica di Catania, a proposito delle camere bianche, sterili e dove si entradopo aver indossato visiere, calzari e tute speciali, confessa: “si deve servire le macchine”, in turni fino a 16 ore; e descrive il rito delle pagelline per la promozione, una valutazione di sapore ottocentesco, nella quale scioperi assenze malattie congedi ti penalizzano; e ovviamente sono le donne che, per via del doppio lavoro, ne usufruiscono di più.
 
Che cosa manca in questo libro
C’è un’assenza totale di donne migranti, probabilmente perché lavorano in altri settori, agricolo, tessile, di ristorazione, di cura. Solo un’impiegata afferma di fare volontariato, insegnando italiano per stranieri. Per il resto, nessun cenno.
Ciò accade, probabilmente, perché della globalizzazione si colgono solo gli aspetti della precarizzazione, delocalizzazione e robotizzazione, ma non compare alcuna riflessione sui due fenomeni di lunga durata epocali che ci interrogano oggi: la devastazione ambientale e le grandi migrazioni; pare insomma che ciascuna intervistata guardi solo alla cultura bianca occidentale, cui appartiene e nella quale si sente, tutto sommato, ben integrata.
Manca, inoltre, una visione complessiva e complessa del modo di produzione industriale: neppure una parola  viene spesa sull’impatto ambientale, sulla necessità della riconversione o sull’urgenza improrogabile di pensare a un modello alternativo a quello capitalistico; manca, cioè, una critica del sistema che di fatto viene accettato e del quale si propongono solo piccoli aggiustamenti (soltanto le operaie alla catena di montaggio appaiono più critiche); il tema ricorrente è  piuttosto la difesa del posto di lavoro così com’è.
Vanno comunque notate le due coloriture emotive fondamentali: il sentimento di precarietà – certamente cresciuto in epoca Covid! – e il bisogno e l’orgoglio dell’appartenenza (non solo al sindacato ma anche alla fabbrica, spesso definita come la propria casa).
Si avverte forte l’esigenza di rendere flessibili i tempi per coniugare pubblico e privato, ma non è sufficientemente compreso che proprio questa distinzione è alla base dell’ingiustizia sociale e dell’alienazione e che lavoro e cura dovrebbero interagire nella vita di uomini e donne, senza iati e senza discrasie.
 
Allargare lo sguardo
Ecco allora un piccolo suggerimento per allargare lo sguardo: rileggere il manifesto del lavoro della rivista Sottosopra della Libreria delle Donne di Milano (2009), Primum vivere. Vi si troveranno molti spunti interessanti, utili ad un ripensamento delle nostre pratiche. Li citiamo appena: consapevolezza delle diversità e della complessità, nessuna cesura tra vita e lavoro, non PIL ma indicatori di benessere per comprendere il valore della nostra società, cura e relazioni in luogo del mercato, doppio sì a lavoro e maternità, flessibilità dell’orario non più uguale per tutti, smascheramento della presunta oggettività del merito, smascheramento del contratto sessuale produzione/riproduzione, autorità femminile, prendersi cura del mondo, rifiutare la guerra. Temi, questi due ultimi, totalmente assenti dal libro…
 
E infine una provocazione
È possibile che nella società globalizzata odierna, la società-fabbrica nella quale ciascuno e ciascuna è operaio/a sociale di cui aveva scritto Negri, il soggetto sfruttato che produce plusvalore sia nei fatti un soggetto asessuato, un mero flusso di informazioni, funzionale all’accumulazione qualunque sia il suo genere?


NbBm - NoteBlock BlogMagazine


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